La riposta
in atto a tutto questo è la guerra popolare in corso guidata dal Partito Comunista
dell’India (Maoista)
Arundhati
Roy, voce dal silenzio
Intervista. L'autrice indiana di
«Il dio delle piccole cose», attivista politica dei diritti umani, racconta il
suo paese durante la quarantena
Arundhati Roy
EDIZIONE DEL16.05.2020
Rapido bilancio di un
lockdown che in India, date le dimensioni, è stato anche il più grande del
mondo. L’impressionante esodo non è mai finito e chissà quando si concluderà,
anche oltre la prevista data di riapertura, il 17 maggio. Il viaggio della dis/peranza,
il ritorno a casa di centinaia di milioni rimasti senza alcun futuro nelle
città dopo l’improvviso annuncio del confinamento il 24 marzo scorso, è
semplicemente continuato, a piedi, in bicicletta, aggrappati ai camion,
infinito serial di emergenze, finalmente visibili su tutti i canali TV anche
per i ceti provvisti di casa in cui confinarsi. Alle prime scene di moltitudini
in fuga, è seguita la chiusura dei confini tra alcuni stati, e le soluzioni di
fortuna gestite da varie autorità: ricoveri, tendopoli, marciapiedi,
distribuzione del rancio con la faccia del Primo Ministro Modi stampata sopra,
o direttamente col mestolo dai pentoloni, tutti in fila e distanziati. Lockdown
quindi più potenzialmente infettivo che altro, come sarebbe stato ovvio prevedere.
Incredibile ma vero, i
primi treni ‘organizzati’ intra-stati, si sono resi disponibili solo il primo
di maggio, festa del lavoro che in India l’anno scorso registrò cortei
letteralmente oceanici, e che quest’anno ha coinciso con la fine di tutto, lavoro
compreso, e compreso anche quello nei campi nonostante sia questo il tempo dei
raccolti. Lo scenario immediatamente successivo sarà di fame, penuria
alimentare su tutti i fronti, classi abbienti comprese. E tra tutti, l’episodio
più sconvolgente si è verificato settimana scorsa lungo una certa linea
ferroviaria che collega il Maharashtra con il Madhya Pradesh: 16 camminanti
falciati via nel sonno da un treno merci. Si erano accasciati esausti sulle
rotaie dopo ore di marcia sotto il sole, contavano di riprendere prima
dell’alba e invece non hanno neppure sentito la sirena del treno che cercava di
frenare, in rete le foto di quel che resta, ciabattine di plastica, sparsi
chapati, stracci. In compenso le cifre del contagio restano basse, 67.700 in
tutto, con neanche 2.500 decessi (meno di quelli registrati in US nella sola
giornata del 6 maggio).
Ma in crescita, 4.213
contagi in più solo nelle ultime 24 ore, forse a causa del massiccio rimpatrio
che è iniziato anche dall’estero: decine di aerei addetti a una migranza di
rientro ben più presentabile ma più pericolosa di quella a piedi, considerate
le aeree di provenienza, US, UK, Germania, Italia, il peggio forse deve ancora
venire.
Che India sarà quella
che si affaccia alla ripresa fra due giorni? Ne abbiamo parlato con la
scrittrice Arundhati Roy, anche lei in lockdown. Ma per niente confinata né in
silenzio.
Lunghe interviste a
«Democracy Now», «Intercept», «Deutche Welle»; e vari articoli, l’ultimo dei
quali questa settimana su Progressive International, la piattaforma nata
dall’alleanza di Diem25 e Sanders Institute con l’obiettivo di contribuire
all’unione delle forze per il quanto mai necessario e urgente cambiamento.
Soprattutto in tempi di limitate libertà personali e crescente, data per
scontata, se non addirittura invocata sorveglianza.
Partiamo dai numeri,
così incredibilmente bassi per 1.4 miliardi di popolazione…
Numeri sicuramente
inaffidabili come direi un po’ ovunque, per la diversità dei criteri di
calcolo, oltre alla scarsità dei test. In India per esempio da noi si contano
solo i morti in ospedale, e veniamo a scoprire che solo il 22% delle morti
vengono diagnosticate, chissà quanti altri saranno i decessi per/a causa del
Covid, magari per fame, o colpo di sole mentre erano in marcia.
L’unica cosa certa è che sia il lockdown che il social/physical distancing non possono funzionare in India, se pensiamo alle decine di milioni negli slum. Prendi Dharavi, la più grande baraccopoli dell’Asia, a Mumbai: un milione di persone in 2 km quadrati, un WC ogni 1400 residenti, come sarà possibile un minimo d’igiene, per non dire confinamento, o quarantena? Per cui chissà, probabile che con tutti i virus che ci volano intorno, l’India ha un sistema immunitario all’altezza del Corona. O forse è vero che il caldo riduce la sua carica infettiva, e da fine marzo le temperature qui sono già alte.
Ma la gravità della situazione che si è creata nel corso di questo mese e mezzo, non è solo sanitaria, bensì sul fronte economico, per non dire dei diritti umani, della repressione che si è scatenata approfittando dall’emergenza Covid. E più ancora sul fronte della più odiosa islamofobia, dilagante ormai a macchia d’olio e con toni inquietanti.
L’unica cosa certa è che sia il lockdown che il social/physical distancing non possono funzionare in India, se pensiamo alle decine di milioni negli slum. Prendi Dharavi, la più grande baraccopoli dell’Asia, a Mumbai: un milione di persone in 2 km quadrati, un WC ogni 1400 residenti, come sarà possibile un minimo d’igiene, per non dire confinamento, o quarantena? Per cui chissà, probabile che con tutti i virus che ci volano intorno, l’India ha un sistema immunitario all’altezza del Corona. O forse è vero che il caldo riduce la sua carica infettiva, e da fine marzo le temperature qui sono già alte.
Ma la gravità della situazione che si è creata nel corso di questo mese e mezzo, non è solo sanitaria, bensì sul fronte economico, per non dire dei diritti umani, della repressione che si è scatenata approfittando dall’emergenza Covid. E più ancora sul fronte della più odiosa islamofobia, dilagante ormai a macchia d’olio e con toni inquietanti.
Ha fatto rumore una
sua recente intervista al canale «Deutsche Welle» in cui per l’appunto descrive
questa dilagante islamofobia come qualcosa che potrebbe preludere a un
genocidio. Ci aiuta a ricostruire l’escalation di questa situazione?
Gli episodi di violenza,
o veri e proprio massacri organizzati dalla maggioranza indù contro la
minoranza mussulmana in India non sono una novità, pensiamo al pogrom che è
continuato per mesi nel 2002 in Gujarath, quando Narendra Modi era al Governo
di quello Stato e fu senz’altro complice per il fatto di non aver mosso un
dito. Da quando nel 2014 Modi è diventato Primo Ministro dell’India, è stato un
crescendo di linciaggi, punizioni corporali e (quel che è peggio) campagne
di hate speech seguitissime sui social. L’obiettivo è
fomentare il disprezzo contro tutte le minoranze dell’India, ma soprattutto
contro i mussulmani, in nome di un suprematismo indù che dice di ispirarsi al
fascismo del primo Mussolini, ma in realtà è già tutto inscritto nella
millenaria Legge di Manu, che predica su base religiosa la disuguaglianza
castale.
Ma per venire a queste
ultime settimane: subito dopo l’annuncio del lockdown, ecco la notizia di vari
casi di contagio in un quartiere poco distante da dove abito, Nizamuddin, che
solo qualche tempo prima aveva ospitato un convegno importante per il mondo
islamico, con numerosi delegati dall’estero della stessa congregazione, la
Tablighi Jamaat, che l’aveva organizzato. Ed ecco che parte su Twitter
l’ashtag #CoronaJihad, con toni da caccia all’uomo e un’infinità di
situazioni odiose, per esempio in Assam, dove i migranti che premono ai confini
con il Bangla Desh vengono definiti ‘termiti’ persino nei talkshow; o in
Jharkhand, dove una donna gravida viene malmenata mentre sta per entrare in
ospedale, finché perde i sensi e anche il bambino; per non dire degli stessi
delegati TJ ancora in visita in India, braccati come criminali, sottoposti a
interrogatori per tracciare gli eventuali infetti, gettati in pasto
all’opinione pubblica come Human Bombs, agenti di chissà quale complotto…
sarebbe infinito l’elenco dei casi, regolarmente amplificati dai media e subito
incendiari sui social. Ma ciò che mi ha spinto a parlarne in termini di
pre-genocidio, è la componente di non casualità che vedo in tutti questi momenti.
Perché non è che un genocidio succede così, da un giorno all’altro. C’è un
processo di predisposizione emotiva e culturale che lo prepara, che porta alla
costruzione del nemico in quanto appunto portatore di pericolo, malattie. Ed
ecco che un’intera comunità viene demonizzata, ostracizzata psicologicamente ed
economicamente, come confermerebbe chiunque si è trovato a studiare questo tipo
di processi. Non è successa la stessa cosa in Germania, quando cavalcando la
paura del tifo o del colera, il nazismo inaugurò l’ostilità verso gli ebrei
come ‘agenti patogeni’?
Eppure, nei mesi
precedenti l’annuncio della pandemia, le città dell’India erano state teatro
del più partecipato movimento di proteste contro la vituperata legge di
cittadinanza, così evidentemente discriminante per la stessa comunità
mussulmana, e con il più ampio consenso della popolazione. Come spiega un così
rapido deteriorarsi della situazione?
Infatti! Soprattutto a
Delhi erano successe cose straordinarie tra dicembre e febbraio, in risposta
alle incursioni della polizia nelle università occupate, JNU, Jamia Millia
Islamia, l’intera città solidale con queste istanze di fondamentale
cittadinanza. E dopo gli incidenti più gravi verso metà dicembre, ecco l’inizio
di quel bellissimo sit-in sempre più grande di donne, nel quartiere di Shaheen
Bagh, che nel giro di pochi giorni si sarebbe trasformato nel più vasto e
duraturo movimento non violento nella storia dell’India post-coloniale. E con
una partecipazione di collettiva creatività, reading di poesia,
concerti di musica, laboratori per bambini, di tutto… tra l’altro subito
emulato in altre città dell’India, Kolkata, Mumbai, Bengaluru.
A questo aggiungi i
risultati delle amministrative nello stato di Delhi, che l’8 febbraio
riconfermarono il mandato al partito Aam Admi (Partito dell’uomo qualunque) con
schiacciante maggioranza: 62 seggi su 70, una clamorosa bocciatura per il BJP.
Ma ahimè la vendetta non si è fatta attendere: verso fine febbraio, ecco
l’attacco in un’area operaia a maggioranza mussulmana a nord di Delhi, con
squadracce di vigilantes armati fino ai denti mentre le forze dell’ordine
restavano a guardare. Caccia all’uomo per i vicoli, case incendiate, corpi
martoriati lasciati imputridire nei canali di scolo: lo stesso copione già visto
in Gujarath, alle porte della capitale e proprio mentre in uno stadio nuovo di
zecca ad Amdebadh andava in scena la visita di Trump al suo omologo (in tutti i
sensi) indiano, un milione di spettatori a fargli festa. E tutti i riflettori
puntati ovviamente lì: le decine di morti negli scontri di Delhi, passarono in
secondo piano.
E ancor più in Italia,
dove in primo piano c’erano i primi casi di Covid: zona rossa, dibattiti in TV,
il propagarsi del virus a così enorme distanza da Wuhan. Di quel bagno di sangue
passato inosservato nonostante la ferocia, ci accorgemmo solo verso i primi di
marzo, con quella sua lettera subito virale sui social che così concludeva:
«questa è la nostra versione del Coronavirus… e siamo tutti infettati». E anche
in India è arrivato poi il Corona vero…
E da una parte ci ha
trovato terribilmente impreparati, dall’altro è servito ad accelerare quel
regolamento di conti sul fronte di tutte le libertà costituzionali, che era già
nell’aria, funzionale tra l’altro a distrarre l’opinione pubblica dalla pessima
gestione della crisi. E così è successo che le impressionanti scene dell’esodo,
delle centinaia di milioni di poveri che cercavano di tornare a casa dopo
essere stati privati di qualsiasi fonte di reddito – sono diventate un po’ meno
impressionanti grazie alla raffica di arresti e denunce, per intellettuali,
attivisti, giornalisti, tutti sommariamente accusati o indiziati di
comportamenti anti-national.
A metà aprile ecco la
resa (come se fossero dei ricercati) di due straordinari intellettuali, Anand
Teltumbde e Gautam Navlaka, entrambi con una mole impressionante di
pubblicazioni, interventi, campagne sul fronte dei diritti umani: il primo in
difesa dei dalits, per la messa al bando di quella vergogna che
resta la questione castale; il secondo già molto attivo anni fa nello sforzo di
controinformazione rispetto a quell’infinita guerra civile tra esercito indiano
e naxaliti nelle zone minerarie del centro India, e non meno attivo più di
recente sulla sempre più grave repressione in Kashmir, in totale lockdown da
mesi.
Notare la data di
questi arresti: 14 aprile, l’anniversario della nascita di Ambedkar, che per
un’enorme parte dell’India in resistenza contro uno Stato sempre più dominato
da interessi corporativi, è molto più di una figura simbolica. E quindi: doppio
sfregio. Ma in galera hanno rischiato di finire anche Siddharth Varadarajan,
fondatore dell’ottimo sito The Wire da lui stesso fondato;
parecchi giornalisti non ancora arresi in Kashmir; per non dire dei leader
della protesta studentesca dei mesi scorsi, tra cui una giovane che ho
conosciuto, Safoora, benché incinta. Tutti colpevoli dello stesso crimine: aver
osato il dissenso. L’ultima vittima di questo attivismo repressivo è stato
persino il Presidente della Commissione per i Diritti delle Minoranze, Zafurul
Islam Khan. La settimana scorsa si è trovato in casa una trentina di
poliziotti, e solo per motivi di anzianità l’interrogatorio si è svolto al suo
domicilio invece che in questura. Il suo crimine: aver reso pubblica su Facebook
il testo di una interrogazione alle autorità competenti, in merito appunto agli
episodi di cui sopra – come era nei suoi compiti.
Gli ultimi giorni di
questo lockdown indiano sono stati persino più drammatici degli inizi, con la
notizia di incidenti in due diversi impianti chimici nel sud dell’India, già da
tempo nel mirino delle associazioni ambientaliste; per non dire dei 16 migranti
morti nel sonno sotto un treno merci, in Madhya Pradesh; o delle cronache di
scontri tra comuni cittadini e forze dell’ordine che si sono registrati qua e
là. Che India sarà quella che sta per riaprirsi dopo 56 giorni di lockdown?
È un’India ferita nel
profondo, irrimediabilmente separata nelle sue abissali diseguaglianze, da
sempre ignorate benché sotto gli occhi di tutti, ed ora spettacolarmente
evidenti. Il lockdown ha non solo provocato il blocco di molte attività
economiche, ma chissà per quanto tempo distanziato dai luoghi di lavoro una
colossale manovalanza a bassissimi costi, che sarà difficile recuperare e che
al tempo stesso alimenterà la più disperante disoccupazione ovunque: se già
prima del lockdown la situazione era drammatica, con il tasso peggiore in 40
anni, figuriamoci ora, con un intero sub-continente in sofferenza, gli stati
più poveri che prima vivevano di rimesse dalle città, che si trovano con
un’eccedenza di bocche da sfamare. Lo spettro per tutti è già quello della
fame, pensando ai campi in abbandono, e in questo che sarebbe tempo di
raccolti.
Come per il corpo
umano, questo virus sembra aver avuto l’effetto di accelerare il collasso anche
nel corpo sociale. Tutte le malattie già da prima latenti, sono esplose. Con
l’unica consolazione che adesso, questo mosaico emergenziale è sotto gli occhi
di tutti: chi ha avuto il privilegio del lockdown tra le mura domestiche, non
ha potuto fare a meno di vedere la magnitudine di un disastro che prima gli
viveva sì accanto, ma era dato per scontato, situazione interstiziale,
funzionale alla crescita. Cosa potrà succedere nelle prossime settimane e mesi,
dipende da ognuno di noi, non solo in India: continuare alla cieca sugli stessi
tracciati, oppure lavorare al cambiamento, come ho cercato di dire in quello
scritto Il virus come portale che ho visto molto condiviso. E non meno
inquietante, anzi forse di più, è la rapidità con cui questa situazione
emergenziale, sta naturalmente scivolando verso lo stato di sorveglianza. Uno
‘sviluppo’ annunciato un po’ ovunque, e che in India sta avvenendo con
incredibile velocità. Una certa applicazione chiamata «Arogya Setu» è già stata
scaricata da 60 milioni di utenti, e dichiarata obbligatoria per i dipendenti
del Governo. Se prima del Corona eravamo alle soglie di tutto questo senza
quasi saperlo, ora siamo i primi a voler essere controllati, con motivazioni
precauzionali. Io questo tempo, molto più del Corona.
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