- Matteo Miavaldi, 09.02.2021
India. L’India di
Modi, sempre più simile alla Cina quando si tratta di rapporti con l’opinione
pubblica straniera o col
dissenso interno, tende a ricorrere sistematicamente alla sindrome
d’accerchiamento per ricompattare il Paese quando il consenso scricchiola.
Grazie al coinvolgimento
di celebrità come la cantante Rihanna e l’attivista Greta Thunberg, da
giorni la protesta dei
contadini indiani rimbalza sui social network di mezzo mondo. Per il governo
guidato da Narendra Modi
le manifestazioni di dissenso che da quasi tre mesi interessano gli stati di
Haryana, Punjab e New
Delhi rappresentano un ostacolo non più sottovalutabile, sia in termini di
tensioni sul campo sia, soprattutto, di danni d’immagine.
Nella giornata di ieri
il premier indiano ha puntellato gli sforzi della propaganda governativa
proprio
dai banchi del parlamento
di New Delhi. Mentre un esercito di lacché del governo più o meno noti –
se ne trovano a decine
nel mondo del cricket e di Bollywood, ma non mancano giornalisti e
opinionisti – agitava lo
spauracchio dell’ingerenza straniera negli «affari interni indiani» su Twitter,
Modi si avventurava alla
camera bassa del parlamento in uno dei suoi tradizionali calembour politici.
Mentre noi stiamo
parlando di Fdi, di Foreign Direct Investments per far crescere l’India, ha
detto
Modi, qui siamo sotto
attacco di un altro tipo di Fdi: «Foreign Destructive Ideology», parafrasando
il
premier, un’ideologia
straniera distruttiva che mira a destabilizzare l’armonia indiana fondata,
secondo il Bharatiya Janata Party (Bjp), sul rispetto delle «tradizioni».
Lo scenario non è nuovo:
l’India di Modi, sempre più simile alla Cina quando si tratta di rapporti con
l’opinione pubblica
straniera o col dissenso interno, tende a ricorrere sistematicamente alla
sindrome
d’accerchiamento per ricompattare il Paese quando il consenso scricchiola.
Con centinaia di
migliaia di contadini ancora accampati alle porte della capitale, Modi ha anche
attaccato i
«manifestanti di professione», puntando il dito contro chi, sempre secondo la
vulgata
governativa, starebbe
ingannando milioni di braccianti, raccontando falsità. Le liberalizzazioni
dell’agricoltura, che
secondo i rappresentanti dei contadini porterebbero allo spolpamento del
settore da parte delle
multinazionali della distribuzione, per il governo rappresentano
un’opportunità per
aumentare i profitti. Un’occasione, ricordiamo, che l’esecutivo ha fatto
passare di
corsa lo scorso
settembre tagliando i tempi di discussione nelle commissioni parlamentari e
senza
coinvolgere le sigle sindacali.
Sul nodo del prezzo
minimo di vendita, uno dei punti centrali per i manifestanti, il primo ministro
ha
cercato di offrire
rassicurazioni, ripetendo più volte che non è nelle intenzioni del governo
cancellarlo: rimarrà a
tutela dei lavoratori, come rimarranno le derrate alimentari calmierate per i
più bisognosi.
Rakesh Tikait, delegato
del sindacato contadino Bharatiya Kisan Union (Bku), ieri pomeriggio ha
replicato a Modi in
conferenza stampa: «Non si faranno affari sulla fame del Paese. Se la fame
aumenta, il prezzo del
raccolto deve essere fissato di conseguenza. Chi vuole fare affari sulla fame
della gente sarà
cacciato dal Paese».
La protesta, insomma, è
destinata a continuare ad oltranza finché, dicono i contadini, le tre leggi
sull’agricoltura non
saranno abrogate.
Nel frattempo, prosegue
la stretta governativa sulla libertà d’espressione nel Paese. Oltre all’arresto
dei giornalisti che
hanno raccontato le proteste, il governo ha segnalato a Twitter 1.200 account
«sospetti», chiedendone
la sospensione o il blocco. Secondo i servizi indiani sarebbero
«simpatizzanti di
organizzazioni separatiste per il Khalistan o vicine al Pakistan». Al rifiuto
del social
network, fonti
governative hanno fatto sapere che alcuni «like» di Jack Dorsey – Ceo di
Twitter a
tweet di sostegno alle
manifestazioni «fanno emergere dubbi sulla neutralità di Twitter.
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